Una targa per non dimenticare il ‘partigiano’ Giuseppe Restelli, è stata inaugurata il 25 aprile in occasione dei festeggiamenti per l’ottantesimo della Liberazione. La targa, voluta dal Comune di Rho e ANPI Rho è collocata in via Madonna all’altezza del civico 75 dove una volta si trovava la casa in cui Restelli ha vissuto dopo la nascita avvenuta l’8 agosto 1924.
Giuseppe Restelli era stato partigiano nelle file della Brigata Alfredo Di Dio, membro del Comitato di liberazione nazionale, noto con il nome di “Catilina”, fondatore della Casa di riposo Perini e della Fondazione che oggi porta il suo nome. “Qui Peppino Restelli è cresciuto – ha ricordato la cugina Angela Grassi affiancata dai cugini Elena Pirola, Camilla Pagani ed Enrico Grassi – Qui a soli 18 anni, vedendo morire al gelo una vicina anziana che non aveva nulla con cui scaldarsi, ha deciso di occuparsi di persone anziane e fragili. E così ha fatto contribuendo a fondare la casa di riposo e la fondazione che oggi porta il suo nome. Qui ha scelto di diventare partigiano, con i fazzoletti azzurri della divisione Alfredo Di Dio. Il suo nome era ‘Catilina’. Non ha mai tradito i valori della Resistenza e per tutta la vita si è speso per il bene comune”.
Alla cerimonia hanno partecipato il direttore della Fondazione Restelli, Giuseppe Enrico Re, che ha ringraziato a nome del presidente Angelo Garavaglia e del Consiglio di Amministrazione di Fondazione Restelli. Con lui c’erano da Antonella Lattuada, Luca Re Fraschini e Giovanni Ferraro.
Nel suo discorso ha ricordato l’impegno di Giuseppe Restelli prima come partigiano e poi “manager della carità”. Questo il testo del discorso: “C’era chi lo chiamava Dottore, per rispetto. E chi più semplicemente Peppino, ma per alcuni, era Catilina. Quel soprannome, che tanto lo faceva sorridere, non fu frutto del caso, ma un nomignolo affettuoso che gli diede un amico di gioventù, proprio durante la Resistenza partigiana. E quel nome gli restò cucito addosso per tutta la vita, persino Enrico Mattei, che lo stimava profondamente continuò a chiamarlo così. Catilina, sì. Ma chi lo ha conosciuto, sa che non stiamo parlando del personaggio della storia antica, di quel cospiratore ambizioso e spinto da torbide intenzioni, come quello descritto dagli autori latini. Restelli, il nostro Catilina rhodense, fu un esempio di quello che Sallustio stesso chiama la virtù civica, che un tempo animava la vita pubblica, una qualità fatta di determinazione e discrezione, senso del dovere e dedizione al bene comune. Con pazienza e visione, seppe costruire luoghi dove la fragilità non è abbandonata, ma accolta. Seppe vedere nella povertà non un pericolo, ma una chiamata alla responsabilità. Seppe trasformare il bisogno in un progetto, la solitudine in una comunità. E la Casa di Riposo Perini, prima, ed oggi e la Fondazione che porta il suo nome – e che quest’anno si accinge a compiere settanta anni – ne sono la prova concreta. Burbero, ostinato, energico e fuori dagli schemi, un uomo instancabile, proprio come il Catilina descritto da Cicerone: audace, scaltro e imprevedibile. Era audace, si. Non si arrendeva allo status quo, non accettava che le cose che non funzionavano restassero come erano, anche quando sembrava impossibile cambiarle. Era scaltro, sapeva destreggiarsi tra mille difficoltà, sapeva trovare vie alternative con il solo fine di tutelare i diritti dei più fragili e di chi vive nel bisogno. Ed era imprevedibile, e si era proprio imprevedibile, ma in modo positivo. Trovava soluzioni che nessuno avrebbe mai pensato e sapeva sorprendere chi pensava di fermarlo, spiazzandolo con una citazione latina o con un semplice proverbio, magari piazzato lì in quel dialetto milanese che gli era familiare. Qualcuno lo ha definito “il Manager della carità”, ma il nostro dottor Restelli fu molto altro: non fu un benefattore retorico, ma un organizzatore di risposte. Non un uomo di grandi parole, piuttosto un uomo di grandi soluzioni. Un uomo che è riuscito a far convivere rigore e visione, conti e compassione, budget e cuore. Giuseppe Restelli fu un partigiano, sì, ma a modo suo. Non imbracciò mai un fucile, non sparò mai un colpo. La sua scelta fu un’altra: quella di resistere con la forza della coscienza, con la fermezza di chi sa da che parte stare. Il suo fu un fuoco diverso – acceso non dall’odio, ma dall’amore profondo per la giustizia, per la libertà, per il bene di tutti. Fu così che in lui, la Resistenza si fece progetto di vita, il coraggio si fece servizio, e la memoria si fece azione quotidiana. Oggi, a distanza di anni, il suo esempio continua a parlarci e questa targa continuerà a ricordarci che si può essere partigiani anche nella pace, quando si sceglie di non voltarsi dall’altra parte. Che si può essere manager, senza perdere l’anima. Che si può essere grandi, restando umani”.