Sono stati mesi di duro lavoro, oggi per la prima volta in vita mia ho deciso di scrivere. Scrivere perché forse gli occhi che incrociano i famigliari degli ospiti potrebbero non riuscire a dire tutto. Scrivere perché tutto sembri più fluido e, spero, più chiaro.
Sono una dipendente della Fondazione Giuseppe Restelli, anzi posso dire che faccio parte della Fondazione Giuseppe Restelli e, mai come in queste settimane, mi sento vicino ad essa. Ho seguito fin dall’inizio ‘la dura scalata verso questa grande montagna’, questa grande sfida straordinaria che è l’emergenza COVID-19. Ho cambiato tutto il mio lavoro, ho messo da parte la stanchezza e non ho mai avuto l’idea di scappare, anzi.
Ricordo che all’università tra le varie definizioni di assistente sociale, quella che più mi piaceva era quella di essere ‘un ponte tra le famiglie e le istituzioni’: ed è proprio così che mi sono sentita in questi mesi, un ponte che non univa le famiglie alle istituzioni, ma tra gli ospiti e i loro cari (e viceversa). Fin dall’inizio dell’emergenza tutta la Fondazione ha cercato soluzioni per evitare la creazione di un ‘muro’, lasciando fuori i parenti: le video chiamate sono state fin da subito un’idea e una soluzione che ho apprezzato e visto realizzarsi in pochissimo tempo.
Sono stati mesi di duro lavoro, dicevo aprendo questa lettera. Non è stato facile vedere il Salone Comune vuoto, tutti i giorni; come non è stato facile abituarsi alle stanze vuote. Sono stata testimone di ciò che è stato fatto in questi mesi; testimone di operatori (OSS, ASA, medici, infermieri, fisioterapisti, animatori, amministrativi, psicologo, cuochi e addetti alle pulizie) che non si fermano mai e che, ogni giorno, lavorano oltre ciò che spetterebbe loro; testimone delle sudate sotto i camici, delle mani non più riconoscibili, della voglia di respirare liberamente.
Sono stata anche testimone dell’assenza di aiuti esterni, nonostante le richieste fatte ai piani alti che vanno ben oltre la Fondazione, testimone di continui cambi di rotta e di informazioni discordanti. Ma allo stesso modo sono stata testimone di una Direzione che ha cercato sempre la via migliore – e più veloce possibile –per tutelare e prendersi cura della salute dei nostri ospiti, nonostante le ‘mani legate’.
Tutta la Fondazione, ogni giorno e per tutti questi mesi, ha fatto il massimo. E io, nel mio piccolo, faccio ora un bilancio, per me stessa e per chi leggerà questa lettera, per ricordarmi e comprendere che l’emergenza che c’era fuori dalla RSA c’è stata anche dentro. La consapevolezza, che porto chiara nella testa e nel cuore, è che abbiamo tutti fatto il possibile, prima di tutto per gli ospiti.
Mi sono sempre chiesta cosa pensano i nostri ospiti nel vedere il proprio caro chiuso dentro un oggetto rettangolare che parla. È stato commovente vederli cercare il proprio figlio, figlia, marito, moglie o nipote dietro il telefono. È stato emozionante vederli cercare di accarezzare il telefono. Non è stato facile vederli piangere e sentire un’empatia forte, tanto da farmi provare un brivido. Ed è stato straziante far vedere ai famigliari che il proprio caro stava soffrendo, che avrebbe voluto vicino il proprio figlio, figlia o marito e moglie prima di lasciarci.
Fare le video chiamate tutti i giorni ed entrare nel mondo di ciascun ospite è stata un’esperienza che mi ha formato ancora di più. Ringrazio tutti i parenti che sono stati comprensivi nel capire che la video chiamata doveva chiudersi in fretta per permettere a tutti gli altri di vedere il proprio caro; comprensivi quando, per mancanza di tempo, c’è stato bisogno di posticipare di 24 ore la video chiamata.
Spero che gli ospiti e i loro famigliari abbiamo visto i sorrisi attraverso i miei occhi e che quei minuti passati con loro, anche solo per fare quattro chiacchiere e cantare insieme le canzoni dall’interfono, abbiano alleviato le loro sofferenze.
Sono stati mesi duri ma molto intensi, mesi che lasciano ancora spazio alla voglia e al desiderio di continuare a lavorare sorridendo con gli occhi.
dr.ssa Debora Lai, Assistente Sociale